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domenica, dicembre 04, 2005

 

Viva Pinocchio

di Sergio Martella

Non finisce ancora di stupire e di ferire l’ostentazione sadica e oscena del rito della morte del figlio. È un rito tutto cristiano quello della crocifissione e del monito pedagogico e perverso insito in questo simbolo di morte che viene affisso sui muri perfino nelle scuole e nei tribunali. Come potranno mai capire i fautori dell’amore cristiano che mai, l’amore vero ha bisogno di sacrifici umani, comunque essi siano giustificati? È la guerra che impone le sue vittime, non certo l’amore. Quando poi l’oggetto di tanto malinteso amore è il proprio figlio che viene educato attraverso il monito pedagogico della croce, allora si capisce che tanta perversione è solo il frutto di un immaturo modo di vivere le relazioni famigliari.

Il Cristo in croce deve aver spaventato più di una generazione di bambini se è vero che il genio di un novelliere italiano, Carlo Lorenzini, noto come Collodi, nei primi anni dell’800 ha voluto, forse inconsapevolmente, ripercorrere al contrario il calvario del figlio giungendo a rivendicarne il diritto alla vita e all’amore del padre: stiamo parlando della favola di Pinocchio, non a caso famosa in tutto il mondo, che narra di un burattino nato direttamente dall’amore del padre, plasmato da un pezzo di legno (proprio sul legno il Cristo aveva trovato la morte) e che arriva a diventare un essere umano consapevole dopo un percorso di maturazione attraverso avventure e pericoli.

Prima di procedere nelle analogie e nei contrari nelle storie di Gesù e Pinocchio, è opportuno dare brevemente degli elementi atti a precisare quale sia il ruolo della figura paterna nelle comunità di religione cristiana.

Il matriarcato è ciò che di fatto connota questa cultura degli affetti famigliari. Nella religione cristiana - che rappresenta, lo ricordiamo, in tutta la sua estensione teologica la psicologia della madre - la centralità del matriarcato è rappresentata simbolicamente in tre modi: a) dallo spirito santo che dà il senso a ogni relazione tra il padre e il figliolo; b) con il dogma dell’unicità e trinità di Dio, il tre infatti simboleggia la composizione della famiglia che trova nella madre fonte e ispirazione unica e totale; c) nell’ossessione ginocentrica della madonna e del mito della ricostruzione dell’integrità verginale, ossia della negazione di ogni sviluppo della sessualità e dell’autonomia dei figli, a partire dal debito di dolore inaugurato con il trauma del parto che pesa su ciascuno come peccato originale (anche l’ostensione dell’ostia e del sangue idealmente contenuto è una celebrazione della verginità dell’imene).

Il mancato distacco dal corpo della madre, la cui presenza è esasperata e preponderante, è la condizione stessa dell’incesto e del mancato sviluppo di una adeguata identificazione sessuale e sociale. Queste due funzioni di identificazione pertengono alla figura del padre il cui ruolo rimane subordinato e marginale, quando non assume, come spesso è successo, la funzione violenta della spada, del fallo punitore. Ma anche in questo caso, ricordiamo, non c’è spada o arma in grado di ferire o uccidere che non sia guidata da una mano che la impugna. La mano solo apparentemente è indifesa. Mano e spada rappresentano la differenza sessuale tra chi è il fallo e chi in realtà lo gestisce.

Nel modello affettivo cristiano l’amore tra padre e figli è spesso assente, il genitore maschio è putativo, comunque subordinato al ruolo della madre, che non è ancora la moglie compagna, ma la Madre del giardino terrestre delle rispettive famiglie di origine. Insomma il Dio creatore e padrone di tutte le cose. L’aggettivazione al maschile non tragga in inganno. San Giuseppe è un pallido padre: come potrebbe avanzare proprietà di ruolo quando non può possedere la donna ancora schiava della sua appartenenza di origine allo spirito santo? Neanche la donna nella giovane coppia ha proprietà di ruolo: è prigioniera nella turris eburnea, nessuno ha ancora sconfitto il drago, nessuno l’ha ancora risvegliata dal letargo dei cento anni nella sua reggia di famiglia. Le favole, per il fatto che nascono dalla spontaneità, hanno una morale ben più avanzata di quella cristiana, prospettano simbolicamente almeno una soluzione fantastica a questo problema del distacco-maturazione dalla famiglia di origine, distacco che la morale cristiana non prevede. La realtà invece la impone; basti pensare alle fughe d’amore o al rapimento prima del matrimonio riparatore in vaste zone del meridione per capire come il trauma del distacco sia necessario alla nuova coppia in formazione, ai novelli Eva e Adamo che comunque pagheranno a lungo il fio di questo peccato con una maternità sofferente e con la schiavitù del lavoro non creativo. La sacra famiglia si riproduce alienata sul modello dell’unità placentare realizzando il ciclo di minaccia, punizione e colpa. L’emancipazione è vista come peccato nella morale cristiana.

Nella lucidità onirica delle favole la madre è invece individuata come matrigna, spesso e volentieri in conflitto con la figlia. In Pinocchio è il pescecane che inghiotte il padre e il figlio assieme nella sua grande pancia-utero. Ogni bocca dentata è simbolo del trauma del parto, quindi della madre. Suscita paura e conflitto. Pensate a Moby Dick, alla nonna-lupo in Cappuccetto Rosso e in mille e mille altre immagini letterarie fantastiche. Nel mezzo della selva, anche Dante si fa accompagnare da un padre simbolico come Virgilio di fronte alle tre fiere. Hemingway ne Il vecchio e il mare racconta del pescatore che uccide marlin e sharks per amore di un fanciullo. È la storia di ogni tempo, la questione è rimasta invariata fino ai nostri giorni.

Ancora in Pinocchio la donna è rappresentata dalla fatina turchina che tortura non poco con pani di gesso, pillole e punizioni il povero burattino. Ma la favola di Collodi è più incentrata sul riscatto dell’amore paterno, un riscatto dal destino di passione e di morte del mito cristiano. La storia di Pinocchio nasce là dove finisce quella di Gesù: dal legno. Solo dopo la morte Gesù accede all’identificazione paterna (sale alla destra del padre). Pinocchio invece è la diretta creazione del padre. Uno si chiama Giuseppe, l’altro G(ius)eppetto; entrambi sono falegnami. Il racconto si snoda sul filo di un’ironia che diviene realismo e quindi morale di stampo deamicisiano; ma intanto l’autore parte da una considerazione piuttosto irriverente, nella sua logica schiettezza, direi palesemente agnostica e anticristiana: se è dato credere che una donna possa rimanere incinta per opera e virtù dello spirito santo, sarà allora altrettanto verosimile che un uomo, per di più falegname, possa fare da sé un bambino con una sega e una pialla. Questione di credo.

Nella favola lo spirito santo è presente sotto forma della voce della coscienza doppiata dal grillo parlante. La parodia al mito cristiano continua poi con l’analogia dei trenta denari e delle monete d’oro, naturalmente riferiti al tradimento e all’inganno; l’orto degli ulivi trova il suo corrispettivo nel campo dei miracoli, e così via.

L’amore del padre riscatta dall’indifferenziata appartenenza al corpo unico (il pescecane); apre al concetto dell’altro, della differenza, dell’intelligenza, della comprensione e tolleranza, ma soprattutto della maturità sociale, cioè nel luogo esterno alla famiglia; è il vero modello dell’identificazione sessuale matura. Così è nella realtà là dove la figura paterna è presente ed è valida. Ciascuno può fare una verifica in questo senso a partire dalla personale casistica di conoscenti. Di contro, la sola presenza materna, se è indispensabile alla vita, è carente da sola a garantire un adeguato sviluppo dei figli. Pensiamo ad un albero grande e florido, in grado di fare ottimi frutti e semi, cosa accadrà a quei semi se finiranno con il cadere ai piedi dell’albero, se non saranno invece dispersi dal vento? Ebbene, i nuovi alberelli cresceranno malati o non cresceranno affatto o, per vivere, dovranno augurarsi la morte dell’altro (arriveranno ad odiare gli anziani? assistenza, pietà ed eutanasia). Così è anche la società chiusa, «privata» che non è matura a sufficienza per garantire ai bambini un esordio immediatamente pubblico e sociale, oltre il corpo della madre che li considera ancora proprietà privata. Saranno facilmente legati all’utero della fabbrica da un catena di montaggio, saranno centrifugati nelle discoteche, sotto la dipendenza artificiale della droga, coloro che danno garanzia di obbedienza, saranno dipendenti in una banca o saranno comunque garantiti; le celle delle prigioni accolgono invece i feti umani più riottosi. L’esito sociale sconta il limite sadico dell’appartenenza prolungata, dell’incesto, dell’accumulo di aggressività, dell’inevitabile controllo come fuga dalla libertà. Per questo ogni inno all’unità placentare della famiglia dovrebbe perlomeno limitarsi ad un’epoca in cui i figli sono ancora bambini e non oltre.

Le madri cristiane non ne sono capaci. La figlia rimane attaccata alla madre nell’unità mistica di Maria Vergine il cui figlio sarà il frutto di un incesto ideale ma non di una libera scelta, l’identificazione sessuale della figlia (là dove è presente) è invece scissa nella figura di Maria Maddalena, la meretrice. Le suore realizzano la perfetta fede a Dio madre; i preti sono garanti eunuchi della sintesi androgina di donna-uomo: Duomo o chiesa madre (con gli attributi). Recentemente la star americana dello spettacolo Madonna ha tentato una personale riunificazione dei due opposti attributi di santa e prostituta che connotano la figlia cristiana; inutilmente, la donna emancipata anche nella sessualità non può prescindere dall’aver avuto un buon rapporto con la figura maschile, innanzitutto con il padre. È lo stesso immaturo sviluppo della sessualità femminile che porta oggi a prefigurare una soluzione industriale alla riproduzione biologica con l’inseminazione artificiale. Pur di non mettere in crisi il rapporto con la mamma attraverso un sano conflitto di separazione molte donne sopportano l’impotenza nei rapporti affettivi; in casi estremi, sono disposte ad appaltare la proprietà dell’utero (grande conquista del movimento femminista) alla scienza di mercato. Di regola invece infelicità e separazioni; il rapporto con l’uomo è fuori portata.

Il figlio maschio appare privilegiato, vezzeggiato dalla madre e invidiato dalla sorella; in realtà non esiste di per se stesso ma solo come fallo della madre. Solo finché sarà il fallo riparatore della mancanza materna avrà diritto a ogni sfrontatezza, il suo narcisismo è perfino irritante. Ma cosa accade a chi voglia varcare le Colonne d’Ercole del libero arbitrio, verso l’autonomia affettiva? Se l’eterno ragazzo vuole accedere alla consapevolezza, all’autonomia e alla libertà? Disgrazia, passione e crocifissione. Morte per sangue. Cristo o Che Guevara, purché muoia; una rabbia emorragica gli presenta il conto del debito del parto, la sua autonomia non esiste perché viziata all’origine da un debito di sangue. L’agnello non può difendersi dicendo che quell’offesa non l’ha fatta lui, che lui è venuto dopo, non per scelta, il lupo insiste: «Mi sporchi l’acqua». E lo sbrana.
Oggi i figli non possono dire di non saperne, a questo serve l’educazione cristiana: il crocefisso fa bella mostra di sé sul muro della scuola. Non avete capito? Capirete! E, soprattutto, l’importante è credere, non sapere.
La conoscenza è uno stupro, è una lacerazione alla placenta del credo religioso. Il sapere religioso è rivelazione, cioè resistenza e paziente rattoppo degli strappi; ma periodicamente sa anche essere inaudita ferocia: quando interpreta il ruolo di belva umana, per ricucire, con filo spinato, gli strappi della storia.

Nella quotidianità cristiana, la placenta materna rivendica il suo contenuto per non sentirsi vuota: la Sacra Sindone reclama il suo contenuto (con-te-nato) umano, placenta e sudario di un corpo che non si vuole dare alla vita ma trattenere per sé come fallo autoprodotto e sempre desiderato. È amore ciò che è capace di distruggere per desiderio di possesso pur di non liberare? Quanto miseri e poco misteriosi sono questi misteri della fede.

Pinocchio fa marameo; si fa beffe della morte da impiccato: «Se non è morto allora è segno che è vivo», sentenzia il dottore; il naso gli ricresce per negare di essere castrato. È dunque il fallo il vero oggetto del desiderio. Del desiderio di chi ci ha creato.
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Sergio Martella
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