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mercoledì, marzo 05, 2008

 

Italia crocifissa, crocifissi in Italia

AL CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI RAGUSA

di Michele Duchi
Presidente del Tribunale di Ragusa

Rispondendo alla lettera del 2.3.2005, preliminarmente mi scuso del ritardo, dovuto da una parte alla delicatezza della questione sottesa al chiesto provvedimento –che richiedeva un adeguato approfondimento di carattere giuridico- dall’altra alla urgenza di decisioni su ben più impegnativi problemi di organizzazione del Tribunale e sul contenzioso giurisdizionale.
Per quanto non creda che il Consiglio o qualcuno dei suoi membri ritenga anche alla lontana che la questione del crocifisso nelle aule giudiziarie abbia nulla a che vedere coi gravissimi problemi di una retta amministrazione delle giustizia e che la sua positiva soluzione possa in qualche modo incidere in essa, la sottoposizione della stessa al mio esame non mi sorprende, venendo in un contesto storico ove il crocifisso –da anni non più attuale nelle nostre aule giudiziarie senza che nessuno abbia mai nulla osservato– assume per tutti quei cittadini (e per quegli avvocati) di più insicura cultura una tavola a cui afferrarsi di fronte all’intravisto pericolo dato dalla sempre più massiccia presenza di cittadini di altra cultura religiosa, esasperati anche da atti di qualche provocatore di origine nostrana e dalla consapevolezza di non potervi opporre un’altrettale forza di convincimento religioso e di fede.
A mio parere, l’uomo di cultura, qual è indubbiamente anche l’avvocato, non può temere di essere prevaricato da un’altra cultura, convinto, com’è fra l’altro, che il confronto non può che essere foriero di frutti positivi per l’una e l’altra civiltà e per la formazione di una civiltà superiore.

Fatta tale premessa di carattere extragiuridico, non posso, giuridicamente, che disattendere la richiesta di ricollocamento nelle aule giudiziarie di quello che, per quanto sia il simbolo più pregnante della nostra civiltà e per questo caro, anzi carissimo, anche al miscredente che scrive, sarebbe inesorabilmente e ingiustificatamente discriminante.
So bene che la religione cattolica o meglio cristiana è più o meno bene –o più o meno male- masticata dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Ma fra tali cittadini, per il rimescolamento di razze, culture e credo, ce ne sono tanti (in certi centri anche del circondario addirittura tantissimi) che cristiani non sono, hanno altre credenze religiose, o non hanno –e consapevolmente e volutamente non hanno– un credo religioso, sono addirittura atei e comunque miscredenti, orgogliosi di esserlo non meno di quanto siano orgogliosi di essere credenti i credenti convinti, e gli stessi verrebbero, da quella collocazione di un simbolo proprio di un credo necessariamente discriminati.
Tengo a precisare che la questione posta non sarebbe meno tale se in Italia non ci fossero immigrati islamici o buddisti o comunque non cristiani. Essa si porrebbe anche se solo un cittadino, uno solo, fosse contrario a quella collocazione.
La quale non è imposta da alcuna norma legislativa ed è prevista, per quanto riguarda gli uffici pubblici in genere e quelli giudiziari in particolare, da norme assolutamente secondarie, neppure regolamentari, e precisamente dalla ordinanza del Ministero dell’interno n.250 dell’11.11.1923 e dalla circolare del Ministero di Grazia e Giustizia n.2134/1867 del 29.5.1026, oggi –ad onta di quanto ritenuto dal ministero dell’interno in una nota del 5.10.1984 n.5160/M/1, proprio in risposta a un quesito ad hoc– travolte inesorabilmente dal nuovo ordinamento costituzionale (Cass.1.3.2000 Sezione Quarta Penale in Foro Italiano 2000 parte II 12), dal quale emerge la configurazione di uno stato assolutamente laico, nel quale ogni riferimento che possa suonare confessionale appare persino dissonante e dissacrante per la stessa confessione privilegiata.
Senza ricordare a quest’ultimo proposito affermazioni di esponenti di spicco della stessa attuale maggioranza di governo, che ritengono offensivo (‘una bestemmia’) per lo stesso simbolo crocifisso la sua collocazione nelle aule giudiziarie (e direi nelle stesse privatissime camere da letto dei credenti che sottopongono il Cristo Dio all’ignominia di assistere magari a violenze e turpitudini anche sessuali), è elementare richiamare l’art.3 della Cost. a mente del quale “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali”.
Conformemente l’art.8 dispone che ‘Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge’, che non è solo l’affermazione della libertà di culto, ma ancora più di uguale dignità e di assoluta eguaglianza.
L’art.97 infine dispone che “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
Particolarmente rilevante è nel caso l’imposizione ai pubblici uffici del dovere di imparzialità, essendo più che evidente che la collocazione di simboli religiosi nelle aule giudiziarie –come in altri uffici pubblici– sarebbe affermazione clamorosa di parzialità, tanto più ingiustificata nel momento in cui la composizione sociale economica e culturale della nazione si fa sempre più varia, e positivamente più varia, e più avvertita è l’urgenza di non creare steccati e contrapposizioni. E’ chiaro d’altra parte che chi prende spunto –e tanti prendono spunto- dal carattere maggioritario della diffusione del credo cristiano per dare alla relativa religione giuridicamente una preminenza qualsiasi sulle altre, non può che essere imputabile dello stesso integralismo massimalista che ci è facile rimproverare all’Islam ( ma solo per la verità alla minoranza facinorosa di esso che ha il suo pendant nel fanatismo e integralismo di tanti cristiani ) e che, come quello cristiano di una volta e di sempre, si macchia, anche nei nostri tormentati giorni, di delitti immani, in nessun modo giustificati e giustificabili, meno che mai nel nome di questo o di quel Dio (che alla fine è sempre lo stesso Dio) in nome del quale vengono commessi o criticati.
Proprio nella considerazione della laicità costituzionalmente fondata del nostro Stato –che anche per questo si pone fra i più moderni ed egualitari del mondo– il nostro legislatore, sia pure di malavoglia, costretto dal pungolo inesorabile della Corte Cost., ha dovuto apportare nel campo della religione e dei suoi simboli più di una modifica al proprio ordinamento giuridico, non ultima quella per noi giuristi più pregnante e usuale dell’abolizione della formula del giuramento, nel quale il nome di Dio è stato in più tappe eliminato, con beneficio anche degli stessi credenti, che se possono incorrere nei rigori della legge penale per falsa testimonianza, non più incorrono nel pericolo del fuoco dell’inferno per spergiuro religioso.
Ma poi, per concludere, non fu Gesù stesso a dire di non fare confusione fra Cesare e Dio e di non mischiare sacrilegamente l’Uno all’altro?
Con ossequi.
Ragusa 20 luglio -settembre 2005.

Dott. Michele Duchi

IL PRESIDENTE

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