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martedì, novembre 18, 2008

 

Revisionando la Revisione

Appunti e spunti di polemica anti-revisionista sulla “Santa Inquisizione”alla luce della storia, della Ragione e del buonsenso

“Ogni sacerdote deve ubbidire agli ordini del papa, pur qualora fossero diabolici”. Innocenzo III

“Inquisizione”: una parola che riecheggia all’istante eventi noti più o meno a tutti nei termini in cui siamo stati abituati a visualizzarli. Quantomeno in teoria così dovrebbe essere, dacché in questi ultimi decenni l’ondata revisionistica che ha sommerso un po’ ovunque la storiografia con una velleità reazionariamente mendace, interessando gli eventi a carattere religioso più di qualsiasi altro settore, si è dedicata per prima cosa a “limare” appunto il capitolo dell’Inquisizione, ritenendo opportuno "rivedere e correggere" la visione universale della critica su parecchi argomenti riguardo la storia del cristianesimo e della cristianità.
Si sa: l’essere umano tende ad annoiarsi molto velocemente delle cose che conosce già da tempo, che ha sentito ripetere monotonamente per anni, e soprattutto che amerebbe ascoltare con un tono meno perentorio e certificante: ciò perché tende a collegare il processo continuativo di cognizione con quello di continuazione della specie, al punto che temerebbe di non avere più alcuno scopo di vita, qualora certificasse un qualche argomento in maniera definitiva. Nel caso specifico, tale azione si rende molto più pressante in quanto la posta in gioco è importantissima: la sussistenza di una classe di “diversi sociali” e del sistema costruito sul Preconcetto Ultimo (l’esistenza di Dio), che garantisce i primi ed i loro manutengoli. Per motivi siffatti, l’uomo potrebbe adagiarsi ben facilmente a voler revisionare a tutti i costi proprio queste cose, specie qualora non ce ne sarebbe stato alcun bisogno…
In effetti, per molti revisionisti la critica storica, agendo sulla scorta della “diffamazione” protestante, illuminista e marxista, finora si sarebbe dimostrata sin troppo estremi­sta e facilona, finendo così giocoforza per essere relegata tra i “dinosauri ideologici dell’anti-clericalesimo” (come la definì tempo fa un “apologeta amatoriale” mio conoscente): così, non contenti di continuare a parlare di "Leggende Nere" (termine coniato nel lontano 1914 dal Juderías ne La leyenda negra y la verdad histórica), ovvero "Rosa" (così la definisce frequentemente il notorio sito www.kattoliko.net, che rac­coglie le perle di fini studiosi del calibro di Introvigne o Messori…), per costoro l’Inquisizione sarebbe stata uno "strumento necessario" che “ha reso un servizio alla società” minacciata da “eretici e streghe” (!), e perciò automaticamente non giudicabile (anche perché “da contestualizzarsi all’epoca in questione”…). Ma soprattutto, nel corso dei suoi ben sei secoli di “santa attività”, non avrebbe mietuto quel numero di vittime così astronomico che le imputano i critici: si parla tutt’al più “qualche centinaio” di morti, non oltre.
Avrei voluto evitarmi di tributare a certe pretese più importanza di quanto oggettivamente meriterebbero, se non fosse che per constatarne l’effetto a vasto raggio basterebbe già fare un breve giro su internet, e listare le centinaia di siti filo-cattolici che diffondono – sovente con un atteggiamento irritante oltre il limite del protervo, condito da irridenti esalazioni di Te Deum – “la verità sul vero modo in cui si svolsero i fatti” ad uso e consumo dell’ho­mo probus (che il più delle volte risulta parecchio refrattario agli anticorpi della “dea Ragione”, a dire il vero). D’altronde, questa tattica non è cosa de’ tempi nostri: gli “avvocati di Dio” ci avevano già provato sulla scia della Restaurazione, e puntualmente vi furono critici (ad es. tra i primi, due secoli fa, l’ex francescano Joseph McCabe) che sottolinearono l’inconsistenza di tale “metodo” sia per la sospetta pochezza di dati in possesso, sia per questioni meramente etiche, che impediscono di ridurre la responsabilità di un atto in proporzione alla quantità di vittime cagionate, quando i fattori in gioco sono di presunta natura sovrannaturale. Per questo motivo riterrei più opportuno sottolineare soprattutto questo tipico modo di pensare così "ragionieristico", in quanto assai sintomatico anche per dare un’idea del livello di mistificazione a cui si è giunti in un paese che, da un lato, imputa alla mancanza di fede le difficoltà della sussistenza quotidiana, mentre dall’altro concede placido ostello e lauto sostentamento ad un’istituzione sedicente spirituale, rivelatasi ab origine molto sollecita allorquando si tratta di “calcoli” (dimentichiamo ad esempio che ad "eretici" e "stregoni" di norma venissero confiscati per prima cosa i beni terreni?).
Vero è che molti fatti furono sicuramente inflati dalla contro-propaganda luterana e deutero-illuminista (del resto assai adeguate al modo di fare della cristianità nei confronti di tutto quanto ne ha preceduto l’auge e ne ha messo in discussione l’ostentato candore), e certo è che l’Inquisizione mieté molte meno vittime di quanto non accadde nei quasi milleseicento anni di continue lotte intestine tra le varie sette cristiane: rimane comunque specioso che, in questo come in altri casi analoghi, gli apologisti disconoscano come il vero problema non sia costituito da termini numerici, bensì dal fatto che questa stessa istituzione predicatrice di pace, amore e carità abbia comunque autorizzato o perpetrato – che ciò sia stato personalmente o tramite agenti compiacenti, la cosa rimane del tutto irrilevante e non giustificativa – la condanna, la tortura e l’uccisione di persone ree d’aver contraddetto ai dogmi di un "dio" altrimenti onnipotente, onnipresente ed "infinitamente misericordioso".
Quel passato non è caduto in prescrizione per il mero fatto che sono trascorsi ormai quasi nove secoli: anzi, esso è ancora molto attuale e grida vieppiù vendetta perché è stato proprio grazie a strumenti del genere, oltre che all’inganno ed alla macchina­zione politico-economica (si pensi alle “donazioni” falsificate ed agli appoggi garantiti dal papato ora a questo ora a quel potente, talora contro la stessa Italia), che la chiesa è riuscita ad assicu­rarsi un proficuo presente e tenta tutt’oggi di perpetuarsi a tutti i costi per il futuro a venire. In questo la colpa della “santa madre” chiesa non può essere minimamente paragonata a qualunque atrocità commessa da qualsiasi altra dittatura al mondo che non si sia puntellata su pretese religiose. Ciò è indubbio soprattutto qualora al danno aggiungiamo le beffe, come accadde in occasione del discorso giubilare di Giovanni Paolo II (a cui opinione il comportamento dei “figli della chiesa” sarebbe stato comunque un po’ “giustificabile”, in quanto cagionato dalla stolidità delle loro stesse vittime, che li “costrinsero” a comportarsi così!), supervisionato dall’allora capo della Congregazione per la Dottrina della Fede (vale a dire, appunto quello che fu già noto come “Sant’Uffizio”, organo direttivo del tribunale dell’Inquisizione): sua eminenza cardinal Joseph Ratzinger, attuale pontefice.
* * *
Dal canto mio, mi asterrò comunque dal riportare i soliti elenchi di torture e strumenti di morte, nonché dal questionare di Galileo, streghe, moriscos e relapsi, o se sia stata più feroce l’Inquisizione medievale, spagnola o romana, dacché li trovo argomenti tanto abusati quanto revulsivi, pur in tutta la loro urlante, attualissima tragicità: mi soffermerò quindi sulla base di ciò che i revisionisti filo-clericali stanno cercando d’imporre all’opinione pubblica oramai da decenni, e nel far ciò preavviso l’ascoltatore di scusarmi qualora mi capitasse d’indulgere leziosamente nel concessivo, in quanto la velleità revisionistica risulta molto spesso automaticamente prona a sollecitare considerazioni salaci malgrado tutta la sua leguleica gravosità (ed anzi, probabilmente proprio a cagione di essa), che risulta disgustosa per chiunque abbia la certezza del fatto che Dio sia un primitivo mass controller, e non un Essere reale che funge da elemento pulsore dell’intelligenza umana.
In effetti, mi riesce arduo pensare con serietà in che modo potrebbe mai risultare soddisfacente una revisione "quantitativa", considerato che, secondo i documenti rintracciati dallo storico palermitano La Mantia ben due secoli or sono, già per la sola Inquisizione Siciliana – sulla cui triste realtà basterà dire che diede “lavoro” a circa 25000 persone; ed era soltanto una dependance di quella Spagnola! – si parla di oltre settanta condanne a morte certificabili nella sola prima metà del 1500, in barba alla “trentina” di esecuzioni totali proposte illo tempore dall’illustre medievalista Franco Cardini. Com’è possibile ciò? È possibile perché il “metodo” con cui i revisionisti hanno estrapolato le loro cifre è analogico ad una velleità sofistica, dacché si basa su una percentuale di documenti molto bassa: ed è lecito dire che, in proporzione, i dati sarebbero stati di certo più ingenti, qualora gli archivi ci fossero pervenuti integralmente. Spesso era il popolo stesso, terrorizzato ed esasperato da questo bel “servizio reso alla società”, ad assaltare i tribunali inquisitorii per distruggere gli archivi con le liste di condannati e sospettati: ma il più delle volte erano coloro i quali ne erano stati autori. Ad esempio, per volere di Giuseppe II, pio cattolico imperatore d’Austria, furono bruciati tutti i documenti relativi all’Inquisizione di Milano che coprivano il lungo periodo tra 1314 e 1764; per lo stesso motivo, dei soli archivi italiani fino al 1771 (7900 circa, di cui 4148 volumi di processi e 472 di sentenze!!!) portati a Parigi da Bonaparte se ne salvarono ben pochi, mentre quel che rimase in Italia delle annate tra il 1772 ed il 1810 fu distrutto dei funzionari del Sant’Uffizio: stessa cosa accadde in tutte le terre spagnole e portoghesi, colonie incluse. Del resto, quando Leone XIII aprì trionfante gli archivi vaticani ai ricercatori, il grande storico della chiesa Pastor tentò di consultare le liste di condanna, ma invano: ciò evidentemente perché qualcuno – racconta ancora McCabe – aveva rimosso i registri di tutte le annate dell’Inquisizione Romana.
Quanto al ridimensionamento "qualitativo", la tortura fu ufficialmente autoriz­zata sin dall’inizio, con la famigerata Ad exstirpanda di Innocenzo IV (dunque già a partire dalla seconda metà del 1200), che sovvertì prontamente le posizioni concilianti di Nicola I in concordia gli appelli all’uso della violenza contro gli eretici espressi negli atti del Terzo Concilio Laterano (1179), prodromo alla crociata contro gli albigesi: e dato che la chiesa non poteva spargere sangue, si optava per sevizie di strappaggio o soffocamento, spesso effettuate in due sessioni per mano del braccio secolare, al quale fu demandato l’onere della repressione fisica a seguito dei decreti di Innocenzo II (1139: atti del Secondo Concilio Laterano, can. 23), dietro minaccia di ritorsioni in caso di riluttanza. Tanto rimase pratica ufficiosa perlomeno fino al 1557, quando Paolo IV – che equipaggiò di tasca sua gli inquisitori con vari gingilli di tortura – nella Pro Votantibus autorizzò lo spargimento di sangue fino alle conseguenze più estreme. Né si può dire che le icone letterarie e filmografiche degli ufficiali inquisitorii cui siamo stati abituati non corrispondessero ad una letterale presa d’atto della realtà documentaria, ad osservare il modo in cui – per citare uno di quelli definiti “più umani” – il famoso Bernard Gui traesse un compiacimento direi lattanziano dai supplizi cui erano sottoposti i malcapitati, come vediamo ad esempio dalle annotazioni del suo manuale riguardo l’esecuzione di fra’ Dolcino e compagna:
“Margherita fu tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettati tra le fiamme, assieme ad alcuni dei complici: era il meritato castigo per i loro crimini”.
Casi isolati? Non direi. Si trattava di una mentalità avvezza e diffusa, che mesceva allo zelo del crociato un sottile compiacimento nel macabro, come vediamo paragonando ad es. le righe di cui sopra con le parole di Bartolomé de Fonseca, inquisi­tore della colonia di Goa, attivo quasi tre secoli dopo il collega francese:
“Mi hanno consegnato un tribunale pacifico, senza processi, prigioni con pochi prigionieri (una sola nuova cristiana, che si rifiutava di confessarsi, che non cedette in nulla e morì in quello stato); nel paese segretamente infiltrata questa gentaccia di nuovi cristiani, tranquilli e a riposo.
Io ho reso il tribunale piegato sotto il peso dei processi, le prigioni sono riempite al massimo di prigionieri: ce ne sono stati di più in questo solo anno che nei tredici anni in cui lavoravano congiuntamente un arcivescovo e due inquisitori. Il paese è pieno di fuoco e di cenere dei cadaveri degli eretici e degli apostati, ed io vengo considerato più come uno sposo di sangue che come uno sposo di pace, odiato da tutti quelli che tengono nascosti i loro interessi con questa gentaccia: e sono numerosi”.
Vigeva piuttosto un behaviorismo abbastanza beffardo, tale da permettere delle eccezioni alle regole scritte, come ad esempio nel caso di quella scheggia impazzita che risponde al nome di Nicola Eymerich, contemporaneo di Gui ed inquisitore del trono d’Aragona, a cui richiesta fu reintrodotto l’uso di trapassare la lingua dei condannati con un chiodo, affinché non profferissero blasfemie: desiderio che re Giovanni tòsto assecondò unitamente alla repressione dei seguaci di Lullo, salvo far retromarcia allorché Valencia insorse all’unisono contro le angherie dell’inquisitore. Fine quasi simile, ma più tragica, toccò all’odiatissimo Pedro d’Arbues, inquisitore del distretto di Saragozza al tempo del leggendario Torquemada (“uomo rigoroso e duro, ma di grande correttezza”, lo commemorò ancora Cardini in un’intervista a Il Timone del gen./feb. 2003…), che per vendicarne la morte per mano dei cittadini inferociti fece un gigantesco falò di “eretici”, e poi lo proclamò santo. Non meglio andò a Rolando di Cremona, fatto fuori da alcuni avversari, od all’atroce Corrado di Marburgo, forse eliminato dagli sgherri di un suo imputato, ingiustamente accusato; Roberto il Bulgaro, domenicano ed ex cataro, invece se la cavò con la condanna al carcere a vita dietro ordine dei superiori, ma non prima d’aver eliminato oltre 250 “dissidenti della fede”.
Allo stesso modo, a proposito di “eretici” (semmai così potremmo chiamare i seguaci di linee di fede dissidenti da una “ortodossia” fondata su favole…), i revisionisti dimenticano altrettanto facilmente che l’Inquisizione agisse ab antiquo in coordinazione con la pianificazione di stermìni di massa, proprio come nel caso delle crociate catare e valdesi, veri e propri genocidi spesso sfuggiti al controllo dei capitani della chiesa: inutili furono i richiami del papa nei confronti dei metodi eccessivamente violenti dei monarchi, che eccedevano per eccesso di zelo e bramosia di confische, tanto quanto eccedeva nelle persecuzioni la popolazione tormentata dallo spettro delle carestie, cagionate – come predicava la chiesa stessa, in fondo – dalla presenza di musulmani e soprattutto di “deicidi” giudei: i pogrom di Siviglia (tristemente famosa per i quemaderos, antenati dei forni crematoi nazisti), Barcellona, Cordova e Valencia sono memorabili, in tal senso.
I revisionisti dicono che la chiesa ebbe poca responsabilità in queste azioni, che ascrivono a sovrani altrimenti illustrati come esempio di luminosa cristianità: ma in realtà il problema non sussiste, in quanto distruggere le eresie cui si opponevano i regnanti per evitare la caduta nel caos da parte della società del tempo, era un piano condiviso con il papato (che molti revisionisti però lodano, disgiungendolo dall’azione del potere secolare). A riprova, sovente accadeva addirittura l’inverso: ad es., tra i carteggi del "Santo" Uffizio figurano i documenti della grande campagna lanciata dal già citato Paolo IV e portata avanti da Pio V contro vescovi e uomini di chiesa italiani del ‘500, colpevoli di simpatie per le correnti moderate della Riforma e per le idee di Valdes!
* * *
Ben altro è quanto circola a livello di divulgazione popolare, e che pertanto costituisce ipso facto un pericolo molto più marcato per le coscienze di quei “poveri di spirito” ai quali – bontà loro – sarebbe stato destinato il Regno dei Cieli: per questo motivo, anziché dedicarmi all’Inquisizione in sé per sé, come fulcro del mio intervento ho ritenuto consono proporre una disamina dell’apologetica che si occupa di essa, ed in particolare quella più “mangereccia”, perché è tanto più perniciosa quanto più risibile. Per darne un saggio concreto commenterò le righe di un noto apologista mio conterraneo, Rino Cammilleri
[1], il quale, in un libello raccogliticcio intitolato "Fregati dalla scuola" (Effe­dieffe, 1999), scritto in polemica con il sistema scolastico statale (secondo lui, figlio di una sorta di congiura anti-papista mirante a svilire la chiesa…), ha cercato volenterosamente di "mettere in guardia" gli "ignari" sulla realtà di questa ed altre "leggende" imbastite dalla “storiografia anticristiana” di cui sopra, e nel far ciò apriva l’argomento del capitolo di cui in oggetto con un argomento spigolosissimo qual è appunto la più volte citata eresia catara:
"La Chiesa pensò di affidare il compito di contrastare l’eresia a teologi cistercensi, inviati direttamente da Roma. Ma questi delegati papali spesso finivano trucidati dagli eretici e dai signori ghibellini che li sostenevano per loro motivi politici. Fu l’assassinio dei legati pontifici (mandante il conte di Tolosa, Raimondo VII) a scatenare la cosiddetta crociata contro gli Albigesi. La famosa frase "Uccideteli tutti, Dio distinguerà i suoi"; è una fandonia storica. Non fu mai pronunciata".
Che si tratti di una "fandonia storica", ne dubito assai, dato che la frase attribuita all’abate cistercense Arnaud-Amaury fu riferita – e ben prima di sospetti “riformisti” – addirittura da un altro cistercense: il priore Cesare d’Hesterbach, agiografo e noto dettatore della regola di disciplina elogiata proprio da Cammilleri in altre parti del medesimo libello, e di stanza proprio a Béziers in quel tempo. Il dubbio risulterebbe comunque oltremodo velleitario, dacché ad averla pronunziata sarebbe stato quello stesso Arnaud-Amaury che così scrisse ad Innocenzo III proprio dopo le mattanze di Béziers:
"Senza risparmiare né vincoli di sangue, né sesso, né età, i nostri sterminarono circa 20000 persone: e, dopo quel gran massacro di nemici, la città fu saccheggiata ed arsa. La vendetta divina ha fatto meraviglie".
Perché mai un personaggio come questo – descritto dalle cronache coeve come qualcosa di più vicino ad un principe che ad un monaco – non avrebbe dovuto mostrarsi irridente nel guidare al massacro degli eretici proprio quelle truppe a lui stesso sottoposte? Si dimentica che persino i capi degli assalitori della fortezza catara di Montsegur, quarant’anni dopo, furono altri due inquisitori? E non si rammenta neppure che uno dei cavalieri francesi che accolsero l’invito del famigerato Innocenzo III fu proprio il capo di Amaury, vale a dire quell’avventuriero Simon de Montfort, allettato dal papa con l’offerta delle terre confiscate?
Ma torniamo al nostro filo conduttore:
"Paradossalmente è proprio l’Inquisizione a inventare il processo moderno. I tribunali laici medievali, infatti, funzionavano col sistema «accusatorio»: il giudice poteva intervenire solo su istanza di parte e giudicava sulle prove fornite dalle parti. Anche l’omicidio. Se i parenti dell’ucciso perdonavano l’assassino, questo veniva liberato.
L’Inquisizione inventa il verbale redatto da un cancelliere, il «corpo del reato», la giuria popolare, gli sconti e la remissione di pena per buona condotta, le licenze per malattia, gli arresti domiciliari, l’avviso di garanzia.
Essa condannò un numero di persone di gran lunga inferiore a quel che certi romanzi «gotici» ci hanno tramandato. E salvò la civiltà europea da un gravissimo pericolo. Proprio perché l’Inquisizione inventa il processo scritto e verbalizzato gli storici sanno tutto su questa istituzione, i cui documenti sono tutti conservati e a disposizione degli studiosi.
Anche la tortura inquisitoriale è una sciocchezza tramandata da disegni e incisioni di fantasia, diffusi dalla propaganda antipapista protestante dopo l’invenzione della stampa. La tortura, come mezzo per far confessare, era usata da sempre da tutti i tribunali. Se (l’accusato) non confessava, veniva liberato. Se confessava sotto tortura la sua confessione doveva essere da lui confermata dopo, senza tortura, altrimenti non era valida. Gli inquisitori la impiegarono pochissimo perché non se ne fidavano: sapevano che c’è chi sotto tortura confesserebbe anche quel che non ha commesso.
La tortura comunque era applicata sempre sotto stretto controllo medico e mai a vecchi e minori (...) Comunque l’Inquisizione ebbe il merito di sottrarre la questione dei falsi convertiti ai linciaggi di piazza. Fu garantito un processo giusto e puntiglioso. I veri convertiti vennero provvisti di regolare certificato inquisitoriale e garantiti contro ogni ulteriore molestia; agli altri fu posta l’alternativa tra la vera conversione o la condanna (...) A bruciare streghe furono soprattutto tribunali laici e protestanti".
È davvero singolare il modo in cui si possano sciorinare verbali, licenze e domiciliari, dimenticando però che gli inquisitori introdussero pure la confisca, la condanna in contumacia, il processo post mortem e tante altre "innovazioni" analoghe, di cui non è possibile parlare diffusamente semplicemente perché di tutti i documenti sicuramente disponibili ci è rimasto piuttosto ben poco. Dai registri e dai manuali in nostro possesso sappiamo comunque che a trascinare una persona di fronte al tribunale sarebbero state sufficienti già chiacchiere e dicerie (la cosiddetta diffamatio), basate su almeno due confessioni (di cui egli riceveva solo un riassunto): inoltre, l’imputato, ritenuto automaticamente colpevole fino a prova contraria, non poteva conoscere l’identità dell’accusatore né il capo d’accusa od i verbali redatti in merito alle sue stesse dichiarazioni. Praticamente, non godeva di alcun diritto, come specificato già da Bonifacio VIII, talché spesso presenziava senza difensori (quello d’ufficio era chiamato semplicemente pro forma, allo scopo di convincerlo a confessare, non già per difenderlo).
Quanto ai giudici, essi potevano usare qualsiasi mezzo a loro discrezione, tra i quali veniva scelto preferibilmente il carcere preventivo, dove l’imputato veniva incatenato e lasciato a languire senza cibo
[2]. A riprova del canone di “legge uguale per tutti”, si usavano due pesi e due misure nel giudi­care e punire i plebei od i nobili: la In multis depravatis di Giulio III prevedeva la perfora­zione della lingua, la fustigazione ed i lavori forzati per i primi, una multa, la perdita di titoli e benefici, il divieto di fare testamento e un bando di tre anni dalla città per i secondi.
Qualora, nonostante tutto ciò, l’imputato non testimoniava o non c’erano prove sufficienti a suo carico, l’inquisi­tore poteva autorizzare la tortura per certificare la pena, la cui “razionalità” può essere sufficientemente illustrata da uno dei metodi “scien­tifici”con cui era estorta la confessione: l’ordalia dell’acqua
[3]. Con simili metodi, è chiaro che la tortura prescindesse piuttosto dalla falsa confes­sione, come vediamo ad es. da alcune famose righe di Francisco Peña, continuatore dell’opera di Eymerich:
"La finalità del processo e della condanna a morte non è quella di salvare l’anima dell’accusato, bensì di mantenere il bene pubblico e terrorizzare il popolo. È compito dell’avvocato incitare l’accusato alla confessione ed al pentimento, e sollecitare una penitenza per il crimine che ha commesso. Non siamo dei carnefici! Che si faccia di tutto affinché il penitente non possa proclamarsi innocente, sì da non dare al popolo il minimo motivo di credere che la condanna sia ingiusta (…) Lodo la pratica di torturare gli accusati".
Direi che quanto a concezione aderente quantomeno al “diritto naturale”, ci siamo quasi… Ma riprendiamo dunque con Cammilleri:
"L’Inquisizione Romana, o Sant’Uffizio, nacque per rispondere alla sfida luterana. Essa fu centralizzata a Roma e affidata ai cardinali. Santi come Pio V (il papa della battaglia di Lepanto) furono inquisitori. Il Sant’Uffizio evitò all’Italia la caccia alle streghe e le guerre di religione. Il periodo della Controriforma, contrariamente a quanto molti sostengono, fu un’epoca di splendore di arti, lettere e scienze".
Se Pio V – fondatore dell’Indice dei libri proibiti, ed egli stesso provetto ex-inquisitore – fu “santo” per via dell’episodio di Lepanto, questa non sarebbe una gran santità, considerato che per suo ordine la polizia romana fece una retata di zingari per spedirli nelle galee, in quanto essere “rom” a quel tempo equivaleva automaticamente ad essere colpevole, quindi sottoponibile a stato di fermo forzato. E il “santo” non volle sentir ragioni nemmeno allorquando alcune persone di buona fede firmarono una petizione di rilascio: anzi, intimò che venissero espulsi da Roma tutti i firmatari (tutti, eccetto "san" Filippo Neri).
Tornando a questioni meno “evasive”, già dal 1233 Gregorio IX diede il via ad un inondazione di follia collettiva contro le streghe sulla scia del Canon Episcopi; ma la caccia massiccia iniziò ufficialmente nel 1484, con la Summis Desiderantes di Innocenzo VIII, che istituì due suoi inquisitori, i famigerati Sprenger e Kramer, il cui tristemente famoso manuale continuò per decenni ad ispirare tantissimi colleghi, nonostante fosse stato iscritto all’Indice dalla stessa chiesa già poco tempo dopo la sua prima tiratura; infine, sulla scorta degli insegnamenti di pontefici tutt’altro che immacolati come Alessandro VI, Leone X, Giulio II, Adriano VI e Gregorio XVI, che stabilirono "infallibilmente" l’esistenza delle streghe, vennero i vari Borromeo, Beltramino, Antonio da Casale, tutti sicuramente preoccupati di eliminare quante più streghe possibili in Italia, di certo nell’ipotetico tentativo di evitarne l’ingrata fatica al Santo Uffizio!
Sorvoliamo, infine, sulla reale consistenza della cultura e delle scienze nel periodo della Controriforma, perché usciremmo abbondantemente fuori tema.
* * *
È con dispiacere, sebbene non senza una punta di compiacimento mordace, che mi sono visto obbligato a dare un saggio di ciò che circola in Italia a proposito dell’In­quisizione, tramite un campionario esemplare di mala-informazione e disonestà intellettuale di cui avrei senz’altro fatto a meno, se non fosse stato che – come ho anticipato – si renderebbe necessario denunciare in primo luogo i tentativi di basso profilo, dal momento che, a differenza degli accaniti salmodiatori di rosarii, perlomeno le penne di un certo spessore ogni tanto si concedono una pausa introspettiva (anche perché difficilmente la loro verbosità speciali­stica potrà attecchire nell’animo dell’uomo di tutti i giorni, più di quanto non accade per l’animo degli apologisti che li prendono a modello).
Sicuramente molti si chiederanno per quale motivo queste persone agiscono in tal modo, sfidando – col supporto di molti circoncellioni e di pochi esperti buonisti – il giudizio della comunità e della storiografia non allineata. Il motivo è assai semplice ad individuarsi: la radicata presunzione d’innocenza di tutto ciò che è presupposto essere di matrice “divina”, in cui omaggio è possibile salvare dalla damnatio memoriae qualsiasi fatto od evento altrimenti censurabile seduta stante. Tanto quanto gli inquisitori che essi tentano d’emendare, costoro non agiscono soltanto per il mero guadagno commerciale, bensì perché seriamente convinti del fatto che stanno agendo per tutelare l’egida del Bene: e penso proprio che neppure il passare l’icona divina ebraico-cristiana al setaccio della Logica potrà mai convincerli del contrario.
A mio parere, il vero problema specifico insito in un argomento simile non è tanto lo speculare quale sia la sua realtà storica vera (che, come visto, per poter sortire fuori non necessita affatto di monumentali tomi dottorali, ma quantomeno di un minimo di buonsenso), bensì per l’appunto fronteggiare certi sinuosi tentativi “apologetici”, e provvedere ad una giusta informazione su ciò che in realtà è la chiesa, la sua storia, la sua agenda e la sua teoria teologica: ne va della salute di coscienza dei nostri figli, ai quali, con la mediazione del­l’attivismo degli scettici, tutti i genitori di buona volontà dovrebbero additare esempi molto più validi di certi personaggi vestiti in maniera bislacca, che predicano facilmente pace e amore da un pulpito innalzato su oltre due millenni di violenza e deliberata eliminazione del Diverso, attuate col supporto di governi compiacenti in nome di un improbabile “ordine superiore”, a contraltare di un culto costruito sull’icona di un ribelle simbolico, giusti­ziato per mantenere lo status quo di una società tendente al parassitismo da oltre due mil­lenni.
Viviamo da secoli in un’Italia di disastro, un’Italia che è visibilmente uno zimbello per tutti, fuorché per quelle maestranze padronali reazionarie che tendono a governare basando la propria “politica” su “valori” desunti proprio da quel credo che ha ridotto il paese ad una perenne fattoria di precarietà: ed è su questo beffardo punto specifico della questione che, sempre a mio parere, si rende più necessario un dibattito organico ed un’azione di sensibilizzazione ben più vibrante, anziché continuare a cercare altrove le cause del malessere.
Fonte:
www.alexamenos.com
[1]Altro abitué editoriale de "Il Timone", introduttore al Manuale dell’Inquisitore di Gui, edito nel 1998 dalla Piemme, e recentemente autore di un altro libro su tema, intitolato La vera storia dell’Inquisizione (Piemme 2003, prefazione di Franco Cardini), nonché curatore della traduzione italiana di Elogio dell’Inquisizione, di Jean-Baptiste Guiraud.
[2]I medici c’erano per assicurarsi se il fisico delle vittime potesse sopportare i supplizi, e rianimarle per far si che non spirassero prima d’aver confessato; inoltre, le indagini di Escamilla-Colin hanno accertato che in molti casi i torturati subissero comunque lesioni permanenti, talché il supporto dei medici sarebbe stato comunque palliativo.
[3]L’imputato veniva posto su uno dei due piatti di una grande bilancia, e se pesava meno della Bibbia che era situata sull’altro piatto, si trattava di un indemoniato; se invece pesava di più, era un eretico!
Bibliografia
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L’Inquisizione. Atti del Simposio internazionale: Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, a cura di A. Borromeo, Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, 2003.
Italo Mereu, Storia dell'intolleranza in Europa, Bompiani 2000
Italo Mereu, La morte come pena, Donzelli 2007
Italo Mereu, Giudici, Rizzoli
Jules Michelet, La strega, Einaudi 1980
Jules Michelet, La strega. La rivolta delle donne nel romanzo-verità dell'inquisizione, Nuovi Equilibri 2005
Bennassar Bartolomé, Storia dell'inquisizione spagnola. Fatti e misfatti della «Suprema» dal XV al XIX secolo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli 2003
Moneti Andrea, Eretica pravità. Inquisizione, corruzione, eresia nella cattolicissima Italia del XIII secolo, L'Autore Libri Firenze, 2004
Leonardi Melita, Governo, istituzioni, inquisizione nella Sicilia spagnola. I processi per magia e superstizione, ed. Bonanno 2005
Benazzi Natale - D'Amico Matteo, Il libro nero dell'inquisizione. La ricostruzione dei grandi processi, ed. Piemme 2006
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Giovanni Romeo. Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze
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Il libro che la tua chiesa non ti farebbe mai leggere, ed. Newton Compton
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